In questa pagina troverai alcuni momenti della mia vita, accompagnati da riflessioni e idee sugli argomenti che tratto nei miei corsi. Di volta in volta aggiungerò nuovi contenuti, quindi, se lo desideri, puoi tornare a visitarla. Buona lettura!
Chi sono
Mi chiamo Lino Missio e mi occupo di comunicazione, ipnosi, psicologia e crescita personale.
Mi sono avvicinato alla crescita personale proprio grazie al mio percorso di trasformazione.
Il primo lavoro di crescita personale l’ho fatto su me stesso.
Da ragazzo avevo delle convinzioni limitanti.
Convinzioni che mi ingabbiavano all’interno di schemi rigidi.
Schemi che non mi permettevano di crescere, di cambiare.
Ma poi, un giorno, cominciò tutto a cambiare.
e grazie a questo, oggi, utilizzo la mia esperienza per aiutare le persone a credere in se stesse e ad osare oltre i limiti preconfezionati dalla loro mente.L
La mia storia
Sono nato a Gela, una piccola cittadina situata a sud della Sicilia, sulla punta più meridionale dell’isola, alle ore 15:00 del 6 luglio 1967.
Mio padre, Giuseppe, era originario di Udine, una bellissima città del Friuli Venezia Giulia.
Tutti gli anni, ci recavamo lì per trascorrere il periodo delle vacanze di Pasqua.
Mio padre proveniva da una famiglia di contadini e, quando andavamo su a Udine, adoravo immergermi nella natura.
Facevo lunghe passeggiate tra i campi coltivati e passavo ore ad osservare gli animali nelle stalle della tenuta: cavalli, mucche, conigli e galline.
Mi sembrava di vivere dentro uno di quei cartoni animati di Heidi.
Mio padre perse i genitori molto presto, a distanza di soli sei mesi l’uno dall’altro.
Ancora adolescente, fu arruolato nel genio guastatori, una specialità dell’arma del genio dell’esercito italiano e mandato a combattere durante la Seconda Guerra Mondiale.
Durante il conflitto, venne fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in un campo di concentramento.
Non ricordo il nome del campo, ma conservo vividi i racconti delle atrocità che mio padre vide e visse, e che mi confidò molti anni dopo, quando ero già adolescente.
Finita la guerra, iniziò a lavorare come carpentiere in ferro presso l’Italsider, una delle principali aziende siderurgiche italiane del ventesimo secolo.
Per esigenze di lavoro, viaggiò molto, venendo trasferito in diverse città italiane, tra cui Gela, una splendida località siciliana affacciata sul mare. Fu proprio lì che incontrò mia madre, Anna.
Mia mamma era una donna d’altri tempi, come si diceva allora per indicare una persona dedita alla casa e alla famiglia.
Tuttavia, la sua infanzia non fu felice.
Sua madre, mia nonna Giovanna, era estremamente severa, quasi un generale.
Da bambina, mia mamma fu costretta a stare in casa per occuparsi delle faccende domestiche e dei suoi fratelli, senza andare a scuola né avere momenti di svago.
Non conobbe mai il divertimento o la leggerezza. Una vera e propria Cenerentola, preferisco ricordarla così.
Fortunatamente, mio padre si innamorò di lei.
Una mattina, mentre si recava al lavoro, la vide sul balcone di casa intenta a stendere i panni.
Rimase colpito dalla sua semplicità e delicatezza.
Fu amore a prima vista.
Decise di conoscerla, ma a quei tempi non era così semplice dichiararsi, specialmente in Sicilia.
Per iniziare, mio padre dovette parlare con mio nonno Angelo, il padre di mia mamma, e chiedere la sua mano, come era tradizione allora.
Mio nonno convocò i figli maschi, i fratelli di mia madre, con cui mio padre dovette confrontarsi.
Solo dopo questa “riunione” arrivò il consenso di mio nonno.
Così, nel giro di poco tempo, i miei genitori si sposarono: era il 25 settembre 1962.
I primi anni di matrimonio li trascorsero a Gela, ma poco dopo, per motivi di lavoro, mio padre fu trasferito prima a Taranto e poi a Genova.
Fu in questa città che, il 21 aprile 1964, nacque mia sorella Giusy.
Dopo circa tre anni, mio padre venne nuovamente trasferito a Gela. Fu lì che, nel 1967, venni al mondo io.D
Da piccolo
Sono profondamente grato di essere nato in una famiglia semplice e umile.
Mio padre mi ha trasmesso il senso del dovere, mentre mia madre mi ha insegnato il rispetto e l’educazione, valori che mi hanno accompagnato per tutta la vita.
Da bambino ero timido e insicuro, qualità che spesso mi rendevano difficile affrontare la scuola.
Nonostante studiassi con impegno, provavo un’incredibile vergogna nel ripetere le lezioni davanti alle insegnanti, e questo si rifletteva nei miei voti, che non erano mai particolarmente brillanti.
Un giorno, ricordo chiaramente, la mia professoressa di italiano disse a mia madre che, una volta concluse le scuole medie, sarebbe stato meglio per me iniziare a lavorare, perché non ero “portato” per lo studio.
Quelle parole furono un colpo durissimo, e lo stesso anno, in prima media, venni bocciato.
Quella bocciatura fu per me una mazzata emotiva.
Passai l’intera estate a piangere, ma alla fine feci una promessa a me stesso: non mi sarei mai più fatto bocciare.
Dovevo cambiare, diventare più sicuro di me e impegnarmi con ancora più determinazione.
Da quel momento, non solo non venni mai più bocciato, ma fui promosso ogni anno, dalle medie fino al diploma, senza mai essere rimandato.
Quella lezione, per quanto dolorosa, mi insegnò il valore della resilienza.
Tuttavia, gli anni delle medie furono difficili anche per altri motivi.
La mia timidezza e il mio sovrappeso mi rendevano bersaglio facile per i bulli.
Venivo spesso chiamato “ciccione”, e ogni volta quelle parole mi ferivano profondamente.
Fu un periodo duro, ma con il tempo e con il supporto della mia famiglia imparai a resistere.
Quando iniziai le scuole superiori, le cose cambiarono.
Con lo sviluppo fisico persi peso, e finalmente cominciai a sentirmi più a mio agio con me stesso.
Nacquero nuove amicizie, e anche nello studio iniziai a ottenere risultati migliori.
Scelsi un istituto professionale di elettronica, una disciplina che mi aveva sempre affascinato.
Fin da piccolo ero attratto dai dispositivi elettronici: a sei anni smontavo radio, televisori ed elettrodomestici di ogni tipo.
Non lo facevo solo per aggiustarli, ma per scoprire come fossero fatti all’interno.
Passavo ore a osservare i circuiti e i fili aggrovigliati, studiandone ogni dettaglio.
Ricordo ancora l’odore caratteristico della bachelite, il materiale utilizzato nei circuiti stampati dell’epoca.
Con la pratica iniziai a costruire piccoli dispositivi elettronici, come robottini, radioline e telecomandi, utilizzando pezzi recuperati da vecchi apparecchi.
Nessun oggetto era al sicuro dalla mia curiosità: anche le bambole parlanti di mia sorella finirono sotto il mio cacciavite.
Scoprii che la loro voce proveniva da un dispositivo composto da un piccolo motorino elettrico collegato a un dischetto di vinile inciso con le parole.
Quei motorini li riutilizzavo per creare ventilatori a pile o per migliorare le prestazioni delle mie macchinine.
Durante gli anni delle superiori iniziai a lavorare come tecnico elettronico a domicilio.
Era un’attività che amavo: non solo mi permetteva di guadagnare qualcosa, ma era una vera e propria passione.
Riparavo dispositivi elettronici di ogni tipo, e grazie al passaparola mi creai una rete di clienti fidati.
Non mi limitavo alla riparazione: progettavo e costruivo dispositivi personalizzati, come telecomandi, amplificatori, trasmettitori FM e lampeggiatori.
Tra i miei progetti più richiesti c’era un antifurto per auto dotato di una tastiera numerica.
Lo installai su molte auto di amici, e la particolarità era che il motore non si avviava finché non veniva digitato il codice corretto.
Quel tocco di super-tecnologia era molto apprezzato.
Dopo la maturità, partii per il servizio militare, obbligatorio all’epoca. Fui assegnato all’Aeronautica, nel corpo speciale VAM (Vigilanza Aeronautica Militare), dove trascorsi un anno svolgendo turni di guardia armata.
Per rendere quel periodo più sopportabile, mi dedicai alle invenzioni.
Mi portai in caserma l’enciclopedia “Elettronica e Informatica” della Erickson, che avevo raccolto con le uscite in edicola, e passavo il tempo libero a immaginare e progettare nuove idee.
Una delle invenzioni che ideai in quel periodo fu un televisore in grado di emettere odori associati alle immagini trasmesse.
Ad esempio, durante un documentario sul mare si percepiva l’odore di salsedine, mentre una trasmissione di cucina poteva diffondere l’aroma di un pollo al forno.
L’idea suscitò molta curiosità, tanto che fui invitato a parlarne in diverse trasmissioni televisive, tra cui il “Maurizio Costanzo Show”.
Un’altra mia creazione fu il “tele-segnalatore di intralcio per autoveicoli”, un dispositivo pensato per risolvere un problema comune a chi parcheggiava in doppia fila o in luoghi dove poteva arrecare disturbo, come davanti a garage o passi carrabili.
Il dispositivo era composto da due elementi principali: un sensore di prossimità, da applicare all’interno del parabrezza dell’auto, e un portachiavi che il proprietario portava con sé.
Quando qualcuno, magari un automobilista irritato o il proprietario di un garage bloccato, avvicinava la mano al parabrezza in prossimità del sensore, il dispositivo inviava un segnale al portachiavi, facendolo suonare per attirare l’attenzione del proprietario e invitarlo a spostare l’auto.
Oltre a dispositivi utili in ambito casalingo, hobby e personale, mi dedicai anche a quelli riguardanti i giochi e lo svago.
Inventai “il cerca anima gemella”, una sorta di portachiavi elettronico che permetteva di trovare il partner desiderato.
Si trattava di un piccolo dispositivo portatile radio-trasmittente, sul quale memorizzare sia le proprie caratteristiche, sia quelle del partner cercato, ovvero, il colore dei capelli, degli occhi, l’altezza, ma anche il tipo di lavoro, le abitudini, i desideri, ecc.
L’invenzione poteva essere distribuita e acquistata nei negozi di giocattoli.
Era formata da un piccolo ricevitore e trasmettitore che comunicava con tutti gli altri dispositivi simili via etere.
Nel caso in cui ci si incrociava con la persona che aveva le caratteristiche ricercate (e viceversa), i due dispositivi riconoscendosi si sintonizzavano scambiando i dati per il contatto (nome e numero di telefono).
All’epoca, internet e le chat non esistevano ancora, e il sistema aveva suscitato curiosità.
L’ultima invenzione alla quale mi dedicai fu quella del “preservativo musicale”, un profilattico tecnologico che, in caso di rottura, ti avvisava con una musica.
Questa idea mi era venuta in mente proprio perché spesso i profilattici durante l’uso si rompono e c’è il rischio di andare in contro a gravidanze inaspettate o a eventuali malattie.
Il fatto che questo profilattico era dotato di un dispositivo d’allarme, in caso di rottura, era una sicurezza in più per chi ne avesse fatto uso.
Questa invenzione, per la sua natura bizzarra e per i tabù dell’epoca, non venne presa nei sui giusti termini scientifici.
Infine, sviluppai il “preservativo musicale”, un profilattico innovativo che emetteva un segnale musicale in caso di rottura, offrendo una sicurezza in più contro gravidanze indesiderate e malattie.
Sebbene l’idea fosse scientificamente valida, non fu compresa appieno a causa dei tabù dell’epoca.
Il periodo dello studio
L’esperienza maturata attraverso le mie invenzioni si rivelò preziosa per mantenermi aggiornato nel campo dell’elettronica.
Grazie a queste competenze, riuscii a superare la prova tecnica per l’assunzione presso una multinazionale nel settore delle telecomunicazioni.
Fu un traguardo che mi riempì di gioia e mi permise di lavorare in uno dei settori più stimolanti che potessi immaginare.
Nello stesso periodo decisi di iscrivermi alla facoltà di ingegneria, spinto dal desiderio di approfondire le mie conoscenze e specializzarmi ulteriormente nell’elettronica.
Tra i vari ambiti, quello che mi affascinava maggiormente era la robotica e la bioingegneria.
Per conciliare studio e lavoro, frequentavo le lezioni serali, rese disponibili dall’università proprio per i lavoratori.
Tuttavia, mi resi presto conto delle difficoltà.
Non tutte le materie suscitavano il mio interesse e per arrivare ai corsi che trovavo entusiasmanti dovevo superare gli esami più impegnativi.
Questo mi portò a sentirmi scoraggiato.
Dopo due anni, decisi di abbandonare ingegneria e provai a iscrivermi a fisica, un’altra disciplina che mi aveva sempre affascinato.
Anche in questo caso, però, non riuscii a portare a termine il percorso.
Conciliavo le lunghe giornate di lavoro con le lezioni serali, ma oltre alla stanchezza, sentivo di inseguire un sogno che non mi apparteneva pienamente.
Infine, decisi di chiudere con l’università, dedicandomi esclusivamente al lavoro.
L’incontro con la filosofia
Negli anni successivi mi dedicai esclusivamente al lavoro.
Ero soddisfatto di lavorare in un settore che sin da piccolo mi appassionava e che amavo tantissimo.
La mia azienda, inoltre, mi permetteva di aggiornarmi costantemente attraverso corsi e trasferte in altre parti d’Italia.
L’idea dell’università era oramai lontana.
O, almeno così pensavo, finché in un pomeriggio d’estate, mentre mi trovavo in ufficio, ricevetti una telefonata da un collega.
Avevo da poco lasciato il settore tecnico per passare a quello commerciale.
Il mio collega mi chiese in che modo anche lui poteva passare al settore commerciale.
Mi spiegò che si era da poco laureato in filosofia e che voleva sfruttare i suoi studi umanistici in un settore più appropriato.
Avevo percepito il suo desiderio di crescita personale e professionale e la voglia di rimettersi in gioco.
La sua storia mi colpì.
Un uomo, sposato, con tre figli, che aveva ripreso e terminato gli studi universitari nonostante gli impegni della vita lavorativa e personale.
Questa sua determinazione aveva riacceso in me il desiderio di riprendere il percorso universitario.
Un desiderio che il tempo e gli impegni della vita, avevano affievolito.
Accolsi la sua richiesta di aiuto, ma ad un patto: che mi avrebbe dovuto spiegare in che modo era riuscito, nonostante il lavoro e gli impegni familiari, a completare la sua carriera universitaria.
Fu d’accordo.
Ci demmo appuntamento in una vecchia centrale telefonica dove ci scambiammo tutte le informazioni che ci eravamo promessi.
Da dopo quel momento, dentro di me scattò qualcosa di magico.
Mi iscrissi in quello stesso anno al corso di laurea in filosofia all’università di Genova.
Ma a differenza del passato, avevo trovato un metodo efficace per seguire al meglio la tabella di marcia.
Non appena un professore pubblicava la data d’appello dell’esame, mi iscrivevo immediatamente nella lista per candidati.
Era un modo per impegnarmi a studiare e a presentarmi agli esami senza nessuna scusa.
E funzionò davvero.
Con impegno e costanza, Il 14 novembre discussi la mia tesi di filosofia e mi laureai.
Il quello stesso periodo, alla felicità della laurea si sovrappose il dolore della morte di mio padre.
Una emorragia cerebrale in seguito ad una caduta l’aveva portato via.
L’ultima volta che lo vidi fu a casa mia.
Era venuto a trovare me e mio figlio Matteo (quello più grande), che all’epoca aveva appena due anni.
Quel pomeriggio io e mio papà, parlammo dell’argomento della mia tesi.
Era molto contento che fossi riuscito a portare a termine i miei studi.
Dopo un caffè insieme, lui si alzò e si avviò verso la porta di casa per uscire.
Lo accompagnai e lo seguii con lo sguardo.
Iniziò a scendere le scale andando giù verso il portone.
Ricordo che indossava una camicia bianca e un paio di pantaloni grigio scuro.
Elegantissimo come sempre.
Tra uno scalino e l’altro, si voltava per salutare il suo nipotino che si era nel frattempo seduto sul gradino del pianerottolo ad osservare il nonno che andava via.
Arrivato in fondo alle scale mio padre aprì il portone e prima di uscire si girò per salutarci.
Quella fu l’ultima volta.
In seguito alla caduta avvenuta in casa, era scivolato in terra per rispondere ad una telefonata, entrò in coma per poi non svegliarsi più.
Dalla filosofia alla psicologia
Ero entusiasta del percorso che avevo intrapreso.
L’indirizzo filosofico che avevo scelto era psicologico e pedagogico, un cammino che mi aveva fatto appassionare allo studio della mente umana.
Decisi così di iscrivermi al corso di laurea in psicologia all’università di Pavia, visto che a Genova non esisteva ancora un corso di psicologia.
Nonostante la difficoltà della situazione, mi sembrava che tutto fosse semplice: studiare per me era divertente e appassionante, come lo è ancora oggi.
Memorizzavo velocemente tutti i libri che leggevo, senza sforzo.
Ma dietro a questa serenità accademica, stavo attraversando un periodo personale molto difficile.
Avevo perso entrambi i miei genitori, il mio rapporto con la madre di mio figlio Matteo era giunto al termine e la mia situazione economica non era delle migliori.
Tuttavia, nonostante tutto, avevo trovato la mia strada e stavo facendo ciò che davvero volevo.
Finalmente avevo capito la differenza tra “volere” e “desiderare”. Non sempre ciò che desideriamo è ciò che veramente vogliamo.
“Volere” e “desiderare” possono essere due cose completamente diverse.
Il mio percorso accademico in filosofia e psicologia era il vero “volere”, mentre la difficoltà che avevo incontrato in ingegneria derivava dal fatto che non era quello che volevo veramente.
Si trattava di un desiderio, ma non mio: un desiderio influenzato dal periodo storico.
Erano gli anni del boom dell’elettronica, e tutti parlavano delle scoperte, delle invenzioni e del progresso tecnologico.
La società, la televisione, i giornali, persino le famiglie, spingevano verso il sogno di diventare esperti del settore.
Ma spesso, ciò che crediamo siano i nostri desideri appartiene in realtà alla società, ai genitori, alle tradizioni, alle mode e alle culture di riferimento.
Ci ritroviamo così a inseguire sogni che non ci appartengono.
Oggi, ad esempio, molti desiderano diventare influencer, ma quando si calano nella parte, scoprono che non è ciò che vogliono davvero.
Questo accade anche per gli hobby, lo sport e altre passioni.
Ma come capire se ciò che desideriamo è veramente ciò che vogliamo?
La risposta sta nella sperimentazione.
Bisogna fare esperienza di ciò che sembra essere un desiderio.
Qualche anno fa, sentivo il desiderio di intraprendere l’imprenditoria, scegliendo il settore della ristorazione.
Insieme a mio figlio Matteo, aprii una piccola hamburgheria d’asporto chiamata “Burger & Chips”.
Le cose andarono bene e, preso dall’entusiasmo, mi venne l’idea di creare una catena di locali con lo stesso nome, che registrai come marchio.
L’idea di diventare imprenditore mi affascinava, e giorno dopo giorno mi convinsi sempre di più che il mio futuro sarebbe stato anche nel mondo della ristorazione.
Così, mi misi al lavoro: fondai una società con persone fidate, cercai locali e coordinai tutto, dal personale ai soci coinvolti.
Ma con il tempo, mi accorsi che molte cose non mi entusiasmavano più.
Il rapporto con i soci, gli accordi con i fornitori, la gestione del personale: tutte cose che avevo immaginato sulla carta, ma che nella realtà si rivelarono molto più complesse.
In pochi mesi, d’accordo con i soci, decidemmo di liquidare l’azienda.
Una decisione sofferta, ma consapevole.
Questa esperienza mi ha insegnato che la strada dell’imprenditoria nel settore della ristorazione non era quella giusta per me.
E sono felice di averlo scoperto.
Questo percorso mi ha permesso di capire ciò che amo davvero fare e cosa, invece, non mi piace affatto.
Se non avessi messo in pratica questo progetto, avrei continuato a inseguire un desiderio che non mi apparteneva.
In questo caso, fare esperienza è stato fondamentale per mettere una “croce” su uno di quei sogni che non erano miei.
E per quanto riguarda il denaro perso?
Beh, quell’esperienza mi ha arricchito, mi ha permesso di formarmi, e la formazione è sempre una risorsa che ha un valore.
La psicofilosofia
Durante il mio primo percorso di studi filosofici, mi avvicinai a quella parte della filosofia che amo definire “pratica”.
Era un periodo in cui si cominciava a parlare di consulenza filosofica, cioè della filosofia come strumento per affrontare i problemi esistenziali e relazionali delle persone.
Questa corrente di pensiero venne avviata da Lou Marinoff, professore di filosofia all’Università di New York, con la pubblicazione del suo libro Platone è meglio del Prozac.
Il libro ebbe un successo globale, venendo tradotto in oltre 20 lingue.
Affascinato dall’idea di utilizzare la filosofia come strumento di cura dell’anima, mi dedicai alla ricerca di nuovi metodi per affrontare i disagi esistenziali e relazionali dell’essere umano.
Così coniai il termine “psicofilosofia”, un neologismo pensato per descrivere al meglio le strategie filosofiche che stavo sviluppando.
Nel 2000, fondai l’Associazione Italiana Psicofilosofi, con l’obiettivo di creare un percorso formativo e un albo professionale per preparare e raggruppare esperti del settore.
Grazie al lavoro fatto in quegli anni, oggi molte scuole di counseling e coaching si rifanno agli studi della psicofilosofia e, più in generale, della filosofia pratica.
Coach e counselor
I miei primi passi come professionista nel campo della relazione di aiuto li ho mossi lavorando sia come coach che come counselor.
La filosofia mi affascinava profondamente, e utilizzarla per favorire il cambiamento nelle persone era una sfida stimolante che ha spinto la mia ricerca e lo sviluppo della psicofilosofia.
Tuttavia, utilizzare la filosofia come strumento per la crescita e lo sviluppo personale non significa semplicemente raccontare ai clienti la vita dei filosofi.
Le conoscenze filosofiche ci forniscono una mentalità e uno sviluppo del pensiero critico che ci permettono di avere una visione più ampia del mondo e di esaminare la realtà da prospettive diverse.
La mia ricerca nel campo della filosofia pratica continua ancora oggi.
Non ho mai smesso di approfondire le mie ricerche e la mia formazione in quest’ambito.
Gli strumenti offerti dalla filosofia pratica sono fondamentali per aiutarci a comprendere e ridefinire gli aspetti cognitivi, affettivi ed emozionali dell’essere umano.
Dalla Psicofilosofia alla psicologia
Mi sono laureato in psicologia mentre lavoravo come Coach e Counselor.
Questo percorso è stato graduale e si è sviluppato in modo sequenziale.
Continuare a studiare, per me, significa aggiornarmi costantemente e acquisire strumenti in più per aiutare le persone a esprimere il loro potenziale, favorendo la loro crescita personale e accompagnandole nel cambiamento.
Così, mi sono ritrovato a soddisfare i requisiti per esercitare la professione di psicologo.
Superato l’esame di stato, mi sono iscritto all’albo.
Diventare psicologo comportava seguire le linee guida della professione, adattando gli aspetti burocratici, i codici delle attività e quelli professionali.
Ciò che mi ha colpito, però, è che, pur dovendo fare tutti questi cambiamenti, io rimanevo la stessa persona che, prima di diventare psicologo, aveva studiato filosofia, pedagogia e antropologia.
Avevo anche lavorato nel campo della comunicazione, occupandomi di dinamiche relazionali e sviluppando strategie psicofilosofiche per aiutare le persone con disagi esistenziali e relazionali.
Mi chiedevo: dovevo abbandonare tutto ciò?
Dovevo separare le conoscenze filosofiche, antropologiche e pedagogiche da quelle psicologiche?
La risposta è stata no.
Non è possibile separare il sapere. Ogni disciplina è un bagaglio culturale che ci forma e ci consente di avere una visione più ampia delle cose.
Ciò che ho fatto è stato integrare le conoscenze acquisite.
Non si può scindere ciò che siamo diventati attraverso l’apprendimento, perché ogni cosa che impariamo contribuisce a costruire la nostra persona.
Spesso, nel mio lavoro clinico, le conoscenze filosofiche che ho acquisito mi offrono strumenti aggiuntivi per supportare i miei pazienti.
Questo è uno dei motivi per cui amo approfondire materie diverse, che mi permettono di sviluppare un pensiero critico e una visione complessiva dell’essere umano.
L’incontro con l’ipnosi
Il mio avvicinamento all’ipnosi è avvenuto ancor prima di intraprendere gli studi accademici in filosofia e psicologia.
Risale agli anni ’90, quando partecipai a un corso di PNL (Programmazione Neuro-Linguistica) a Milano.
Fu lì che appresi le prime tecniche di ipnosi, spinto dal desiderio di comprendere meglio il funzionamento della mente inconscia e di acquisire strumenti pratici per gestire le emozioni e potenziare le risorse personali.
Ricordo quel corso con una certa meraviglia.
Un’esperienza che si è rivelata fondamentale per il mio percorso di vita, sia personale che professionale.
Fu come spalancare una porta verso un mondo sconosciuto, ma affascinante.
L’ipnosi, da quella prima scintilla, è diventata una disciplina che non solo mi ha appassionato profondamente, ma che si è trasformata in un pilastro essenziale del mio lavoro.
Da quel momento, la mia ricerca e lo studio sull’ipnosi non si sono mai interrotti.
Ho esplorato ogni aspetto di questa straordinaria pratica, integrandola sempre di più nella mia attività professionale.
Oggi utilizzo l’ipnosi in ambito clinico, per supportare i miei pazienti nella gestione delle difficoltà emotive, e nel contesto della crescita personale, per aiutare le persone a riscoprire le proprie potenzialità e raggiungere nuovi obiettivi.
La passione per l’ipnosi non si limita alla pratica personale.
Mi ha spinto a creare corsi di formazione specifici per il personale sanitario.
Credo fermamente nelle potenzialità curative di questa disciplina e sento il bisogno di condividerne i benefici, formando professionisti capaci di utilizzarla per migliorare la qualità della vita dei propri pazienti.
Che cos’è l’ipnosi?
Il termine ipnosi deriva dal greco hýpnos, che significa “sonno”.
Tuttavia, contrariamente a quanto suggerisce l’etimologia, l’ipnosi non ha nulla a che fare con il dormire.
L’ipnosi è uno stato modificato di coscienza, una condizione mentale che tutti noi sperimentiamo spontaneamente nella vita quotidiana.
Pensate a quante volte vi è capitato di guidare, cucinare o lavorare mentre la vostra mente vagava altrove.
Eppure, nonostante l’apparente distrazione, siete riusciti a raggiungere la destinazione, completare il piatto o terminare un compito con precisione.
Questi momenti sono esempi di stati ipnotici naturali, nei quali la parte cosciente della mente si allontana per lasciare spazio a quella più profonda: l’inconscio.
Durante uno stato ipnotico, l’attenzione della persona si concentra su un universo mentale interiore.
Si verifica un distacco temporaneo dalla percezione del mondo esterno, a favore di un’immersione in un mondo interiore ricco di pensieri, immagini, suoni, sensazioni ed emozioni.
Sfatando i falsi miti sull’ipnosi
Esistono numerosi pregiudizi e idee errate sull’ipnosi.
Ad esempio, quando si entra in uno stato di trance ipnotica, non si perde coscienza, né si va in coma o si sviene.
La persona rimane sempre in contatto con la realtà circostante e conserva piena consapevolezza di ciò che accade.
Un altro luogo comune riguarda il ruolo di chi induce l’ipnosi.
Contrariamente all’immagine diffusa, l’ipnotista non possiede alcun “potere magico”.
Il processo ipnotico è il risultato di tecniche specifiche di induzione, apprese attraverso una formazione rigorosa e professionale.
Un’esperienza naturale e universale
L’ipnosi, quindi, non è un fenomeno misterioso, ma uno stato del tutto naturale, intrinseco all’essere umano.
Si tratta di una risorsa preziosa che ognuno di noi possiede, in grado di favorire la connessione con le profondità della nostra mente e con le potenzialità latenti dell’inconscio.
L’induzione ipnotica
Per indurre uno stato ipnotico in un soggetto, è necessario ricorrere a tecniche specifiche che variano in base al contesto e agli obiettivi prefissati.
Esistono numerose modalità di induzione ipnotica, ognuna con caratteristiche e applicazioni diverse.
Tra le tecniche più classiche spiccano quelle basate sull’uso del linguaggio verbale e del tono della voce.
Attraverso frasi accuratamente costruite e un tono di voce pacato e rassicurante, l’operatore guida il soggetto verso uno stato di profondo rilassamento.
Questo tipo di comunicazione verbale crea un ambiente favorevole per l’accesso alla dimensione inconscia della mente.
Tuttavia, l’induzione ipnotica non si limita al linguaggio parlato.
Anche la comunicazione non verbale gioca un ruolo fondamentale.
Gesti, posture e movimenti di contatto, eseguiti seguendo procedure precise, possono facilitare l’accesso a uno stato ipnotico.
La combinazione di segnali verbali e non verbali consente di adattare l’induzione alle esigenze e alle caratteristiche del soggetto, rendendo il processo più efficace.
Va sottolineato che l’argomento è estremamente vasto e complesso, difficile da esaurire in una trattazione teorica.
Non solo.
Le tecniche di induzione ipnotica, per quanto affascinanti, richiedono un apprendimento pratico.
Come accade nelle discipline marziali, dove è impossibile padroneggiare arti come il Karate o il Kung Fu leggendo semplicemente un libro.
Anche l’induzione ipnotica deve essere appresa attraverso l’esperienza diretta.
Considero l’induzione ipnotica una vera e propria arte.
Come tale, richiede esercitazioni pratiche e un insegnamento guidato da professionisti esperti e qualificati.
Solo attraverso la pratica si può affinare la sensibilità necessaria per utilizzare efficacemente queste tecniche, trasformandole in uno strumento potente e rispettoso per il benessere delle persone.
Ipnosi e diffidenza
L’ipnosi è spesso accolta con un certo scetticismo.
Tuttavia, i suoi fondamenti sono solidamente scientifici e nulla hanno a che vedere con il mondo della magia.
Già nel 1942, in Inghilterra, il medico chirurgo Ward effettuò un’amputazione di una gamba utilizzando l’ipnosi come unica forma di anestesia.
Il paziente, al termine dell’intervento, riferì di non aver provato alcun dolore.
Ancora oggi, l’ipnosi trova applicazione in sala operatoria, soprattutto nei casi in cui i pazienti siano allergici agli anestetici farmacologici.
Nel campo odontoiatrico viene utilizzata per estrazioni, impianti e piccoli interventi, garantendo un’assenza di dolore.
In ginecologia e ostetricia, è impiegata per aiutare le mamme a vivere il parto senza dolore né ansia.
L’ipnosi ha anche applicazioni mediche rilevanti: viene usata per trattare cefalee, emicranie, dolori articolari, dolori associati a patologie neoplastiche e malattie autoimmuni.
È inoltre efficace per ridurre ansia e dolore durante esami diagnostici invasivi.
In ambito sportivo, è adottata a livello agonistico per migliorare la concentrazione e le prestazioni degli atleti.
Anche nell’apprendimento, l’ipnosi si dimostra utile per potenziare le capacità mnemoniche e facilitare l’acquisizione di nuove conoscenze.
Questi esempi dimostrano come l’idea dell’ipnosi relegata esclusivamente al mondo della psicologia sia ormai superata.
La sua versatilità e le sue potenzialità sono riconosciute e applicate in diversi settori, rendendola uno strumento prezioso e innovativo.
L’Ipnosi funziona?
Rispondere a questa domanda non è semplice, soprattutto perché è molto generica.
Sebbene una persona possa entrare facilmente in uno stato ipnotico, ciò non garantisce necessariamente che sarà ricettiva agli obiettivi specifici del trattamento.
Facciamo un esempio: se una persona vuole smettere di fumare con l’aiuto dell’ipnosi, potrebbe raggiungere lo stato di trance senza difficoltà, ma non rispondere ai comandi post-ipnotici impartiti durante la seduta.
Questi comandi, progettati per lavorare a livello inconscio sulla dipendenza, potrebbero non sortire effetto se il soggetto non è sufficientemente ricettivo.
L’efficacia dell’ipnosi dipende infatti da numerosi fattori personali: la mentalità, le convinzioni, la personalità e altre caratteristiche uniche del soggetto.
Per questo motivo, mentre alcune persone possono trarre beneficio dall’ipnosi e superare, ad esempio, una fobia in una o più sedute, altre con lo stesso problema potrebbero non ottenere alcun risultato.
Non tutti i disturbi, infatti, sono trattabili con l’ipnosi.
Prima di adottare questa tecnica, è essenziale che il professionista valuti attentamente sia il problema che il paziente, decidendo di conseguenza il trattamento più adatto.
Ricevo spesso richieste per sedute di ipnosi, ma non le accetto mai a priori.
È fondamentale prima conoscere il paziente, comprendere la sua problematica e valutare se l’ipnosi sia la strada giusta per lui.
In alcuni casi, l’ipnosi potrebbe non essere il trattamento ideale, e forzarne l’uso solo per accontentare il paziente rischierebbe di alimentare aspettative irrealistiche e compromettere il resto del percorso terapeutico.
Quando si decide che l’ipnosi è appropriata, è importante rassicurare il paziente.
Deve sapere che durante tutta la trance rimarrà cosciente e non perderà mai il controllo.
L’ipnosi viene utilizzata con successo per trattare una vasta gamma di disturbi, tra cui ansia, stress, attacchi di panico, bassa autostima e dolore fisico.
Può aiutare a smettere di fumare, a perdere peso e persino a gestire il dolore durante piccoli interventi chirurgici, sia in ambito odontoiatrico che in chirurgia generale.
L’Ipnosi non è l’unica soluzione
Spesso si pensa che l’ipnosi possa risolvere qualsiasi problema, ma in realtà non è così.
L’ipnosi è solo una delle tante tecniche psicologiche a disposizione, e la sua efficacia dipende da numerosi fattori che vanno attentamente considerati.
Ad esempio, può essere un ottimo strumento per trattare gli attacchi di panico in alcune persone, mentre in altre potrebbe risultare inefficace.
Per questo motivo, è fondamentale che sia sempre il professionista a valutare il trattamento più adatto, basandosi sulla situazione specifica del paziente.
Inoltre, ci sono casi in cui, nonostante l’ipnosi non abbia dato risultati, altre tecniche si sono rivelate risolutive.
È importante fare attenzione a chi propone l’ipnosi come l’unica soluzione a tutti i problemi, senza tenere conto delle alternative disponibili.
L’ipnosi in psicologia
Come psicologo ho potuto constatare come molti blocchi emotivi sono rimossi e conservati nella nostra mente inconscia.
Paure, rabbia e altre emozioni che esprimiamo sono legate al nostro passato.
A tutto il nostro vissuto.
Facendo uso dell’ipnosi, è possibile risalire ai nostri blocchi.
Tempo fa venne da me una donna sulla cinquantina, accompagnata da suo marito con il quale era sposata da 20 anni.
La signora mi disse che non aveva mai avuto nessun rapporto sessuale completo.
Né col marito, né, in precedenza, con altri uomini.
Al solo pensiero di essere penetrata, avvertiva un forte dolore e una grande paura che le impediva ogni relazione intima.
Un dolore mentale che non le permetteva nemmeno di essere visitata dal suo ginecologo.
Durante la prima seduta di ipnosi regressiva, la donna, scoprì di aver vissuto, all’età di 12 anni, una violenza sessuale da parte del padre.
Scoppiò a piangere.
Di quella violenza non ricordava nulla.
Nelle sedute successive cercammo di elaborare questo grande trauma.
La paziente pian piano riuscì ad avere il primo rapporto sessuale con suo marito.
Rimuovere dalla coscienza eventi forti come quello accaduto alla paziente è una difesa che la nostra mente adotta negli istanti successivi ad un trauma.
Questo meccanismo consente di rimuovere l’episodio violento e permettere alla persona di continuare a vivere senza che quest’ultima possa focalizzarsi sul trauma.
Allo stesso tempo, la nostra mente inconscia, presenta specifici sintomi che hanno il compito di proteggerci da chi ci ha causato il trauma.
Temere le figure maschili, per la paziente, era una forma di protezione.
Il problema di non lasciarsi andare con il marito nasceva dal fatto che la donna si proteggeva per quell’effetto che io chiamo “alone”.
L’inconscio della donna di fronte a qualsiasi approccio maschile la metteva nelle difensive.
Con l’ipnosi regressiva, la persona diviene consapevole del trauma e pertanto capace di discernere il soggetto che le ha fatto del male da qualunque altra persona di sesso maschile che entra in relazione con lei.
La rimozione, dunque, è una protezione che la mente mette in atto, non il problema.
Fare in modo che vengano rimossi i ricordi traumatici è funzionale per una corretta evoluzione della persona.
Spetta all’inconscio elaborare il trauma.
Non solo, ma l’inconscio ci protegge da ciò che è stata la causa del nostro trauma.
Infatti attraverso i sintomi, ci tiene distante dai pericoli.
Il problema psicologico nasce con la presenza dell’effetto alone.
Nel caso precedente la paziente ha subito violenza da parte del padre ma per effetto alone si è difesa da tutte le figure maschili con le quali entrava in relazione.
Consapevolizzando l’evento traumatico la persona è capace di relazionarsi in modo naturale con chi non ha nulla a che vedere con il suo trauma.
Un caso simile è quello di una giovane donna.
Tempo fa mi venne a trovare una coppia di giovani sposini.
Il marito aveva accompagnato da me la sua giovane moglie per una forma grave di bulimia.
La donna mangiava a tutte le ore, sia di giorno che notte.
Era spinta dal desiderio continuo di cibo.
Per compensare le calorie acquisite, svolgeva, in maniera ossessiva e compulsiva, attività sportive, come ginnastica e corsa all’aperto.
Durante una seduta di ipnosi regressiva, scoprì che da piccola, all’età di sette anni, suo zio, in assenza della mamma, l’aveva costretta ad un rapporto orale.
La paziente aveva totalmente rimosso l’accaduto.
Durante la seduta successiva, la donna riferisce di aver consapevolizzato il motivo scatenante del suo disturbo.
La sua compulsione ossessiva nei confronti del cibo nasceva da una spinta inconscia a “coprire” il sapore di quell’abuso.
Tutto cominciò ad essere più chiaro.
Grazie a quella rielaborazione, la paziente ha potuto rielaborare il trauma e riprendere un comportamento equilibrato nei confronti del cibo.
Da quel momento la donna ha adottato uno stile di vita del tutto normale.
Vite precedenti
Alcuni pazienti, durante le sedute di ipnosi regressiva, rivivono traumi appartenenti a quelle che sembrano a tutti gli effetti delle loro vite precedenti.
Inizialmente anch’io ero sorpreso da questo fenomeno.
Col tempo però ho imparato che non è fondamentale credere o non credere alle vite precedenti.
Ciò che importa è l’effetto che questo fenomeno comporta.
Mi spiego.
Tempo fa una mia paziente venne da me perché aveva una paura inspiegabile del fuoco.
Una vera e propria fobia che le rendeva la vita difficile.
Ogni volta che si avvicinava ai fornelli, ad una persona che aveva un accendino in mano o, semplicemente, se guardava un film con scene incendiarie, iniziava a sudare freddo, si agitava e sentiva l’istinto di scappare via.
Questo le capitava anche se pensava alla possibilità che un incendio si potesse sviluppare in un luogo chiuso o su un mezzo di trasporto.
Durante una seduta di ipnosi regressiva, disse di trovarsi in auto e di vedere di fronte a lei un muro di macchine ferme in coda.
Provò in tutte le maniere a frenare ma non ci riuscì.
L’impatto fu tremendo.
La sua macchina prese fuoco e lei morì carbonizzata.
Al risveglio, mi disse che sentiva di non avere più paura del fuoco.
Nei giorni successivi la sua fobia era del tutto sparita.
Ora, ammettiamo che le vite precedenti non esistano e che tutto quello che ha raccontato la paziente sia stato frutto di fantasie inconsce.
Ciò che però non possiamo negare è l’effetto che questo racconto ha generato.
La donna, dopo la seduta, ha smesso del tutto di avere paura del fuoco.
Pertanto, quanto importa dimostrare se le vite precedenti esistano o meno.
Ciò che conta è il risultato che le tecniche di regressione alle vite precedenti determinano in un paziente.
Paragono sempre il fenomeno delle vite precedenti a ciò che accade nella nostra mente quando andiamo a dormire dopo aver bevuto molta acqua.
La nostra mente, stimolata fisiologicamente dall’esigenza di dover urinare, crea un sogno nel quale si è alla ricerca disperata di un bagno per soddisfare il nostro urgente bisogno.
Dopo una serie di tentativi, e trovando nel sogno il posto ideale per fare pipì, al nostro risveglio ci ritroveremo completamente bagnati.
La costruzione mentale di una vita precedente potrebbe seguire lo stesso meccanismo.
Un sogno creato a pennello da parte della nostra mente inconscia, faciliterebbe l’eliminazione del disturbo fobico.
Una sorta di canalizzazione creata appositamente per permettere alle nostre emozioni somatizzate di poter essere sviscerate.
Un po’ come succede nell’esempio che ho fatto della pipì.
Un altro caso interessante è quello di una ragazza che non riusciva a studiare medicina all’università.
Tutte le volte che si trovava di fronte a organi o corpi sezionati, o semplicemente alla vista del sangue, sveniva.
Non solo.
La paziente perdeva i sensi anche quando osservava delle semplici raffigurazioni o illustrazioni di parti anatomiche sezionate.
Un grande problema per il percorso di studi scelto.
Amava la medicina e non voleva rinunciarci.
Desiderava a tutti i costi di proseguire con l’università e arrivare alla laurea.
Venne da me per sottopormi il problema.
Decisi di sottoporla ad una seduta di ipnosi regressiva.
Durante il trattamento mi raccontò di trovarsi ai tempi del medioevo.
Si vedeva in una grande piazza circondata da un gruppo di persone che la tenevano bloccata accoltellandola ripetutamente.
Pezzi di organi e sangue schizzavano da tutte le parti fra il suo dolore lancinante e le risate dei partecipanti.
Al suo risveglio era esausta.
Non aveva la forza di parlare.
La lasciai riposare.
Appena si riprese, senza chiederle null’altro la accompagnai alla porta e la lasciai andare a casa.
Nei giorni successivi ci sentimmo e con grande stupore mi disse che il problema era sparito.
Finalmente riusciva a seguire le lezioni più impressionanti di medicina.
Un altro caso interessante è quello di una mia paziente che soffriva di frequenti emicranie.
Dalle visite mediche non era stato riscontrato nulla che facesse pensare ad una causa di natura organica.
Venne da me per capire se il problema potesse essere di natura psicosomatica.
Durante la seduta di ipnosi regressiva si ritrovò all’istante in una vita precedente.
La paziente in quella vita era un ragazzino di circa nove anni che viveva in un orfanotrofio nel dopo guerra.
Stava giocando in giardino con i suoi amici quando, ad un tratto, un grosso albero gli cadde addosso schiacciandogli la testa.
Urlava dal dolore come se l’incidente le stesse capitando proprio in quel momento.
Quando si risvegliò, la paziente era frastornata e la lasciai riposare per un po’.
Alcuni pazienti dopo una regressione hanno la necessità di riposare ed elaborare spontaneamente i ricordi riaffiorati.
Il giorno seguente mi chiamò dicendomi che stava bene e che il mal di testa le era sparito.
Aggiunse che mi avrebbe chiamato in seguito per aggiornarmi.
Sei mesi dopo mi telefonò, dandomi la notizia che da dopo quella seduta non aveva più avuto attacchi di emicrania.
Per me fu una notizia straordinaria.
Ero felice che avesse risolto per sempre il suo problema.
Dall’ipnosi all’ipnokinesi energetica
Gli anni di esperienza nel campo dell’ipnosi e nelle tecniche di rilassamento ipnotico mi hanno permesso di sviluppare un nuovo metodo di induzione e regressione, che ho chiamato “Ipnokinesi energetica”.
Il termine “Ipnokinesi” nasce dalla combinazione di “ipno”, dal greco “sonno”, e “kinesi”, dal greco “movimento”, uniti alla parola “energetica”, che si riferisce ai sette centri energetici, ovvero i chakra.
Questo metodo si basa sull’induzione ipnotica attraverso il movimento di specifiche aree del corpo e la stimolazione dei sette chakra.
L’induzione può avvenire mentre il paziente è in piedi, seduto o sdraiato.
Tuttavia, è fondamentale che, prima di iniziare l’induzione ipnotica, il soggetto stabilisca una forte fiducia con il terapeuta.
Questo viene realizzato attraverso una serie di passaggi.
Prima di tutto, è essenziale chiarire che non si esegue un’induzione ipnotica senza aver fatto un colloquio preliminare con il paziente.
Durante questo colloquio, è fondamentale capire le motivazioni che lo hanno portato a cercare un professionista e quali problemi intende risolvere.
Il colloquio fornisce informazioni preziose per decidere se l’Ipnokinesi energetica è la tecnica più adatta e per mettere a proprio agio il paziente, informandolo su come si svolgerà la seduta.
È molto importante ricordare al paziente che non perderà mai né la coscienza né il controllo di se stesso durante la sessione.
Una volta completato il colloquio e fornito il giusto supporto, si passa alla parte pratica dell’induzione.
Il primo passo è verificare quanto il paziente abbia acquisito fiducia. In piedi, con gli occhi chiusi e i piedi uniti, si proverà a osservare se si lascia andare a oscillazioni provocate dal professionista.
La morbidezza o rigidità dei muscoli, insieme alle espressioni facciali, forniranno indizi importanti sullo stato di fiducia raggiunto.
A questo punto, si può procedere alle tecniche di induzione vera e propria.
L’induzione ipnotica è un processo complesso e vasto, come spiego nei miei corsi.
È impossibile apprendere le tecniche semplicemente leggendo descrizioni o manuali, un po’ come avviene nelle arti marziali, dove le tecniche di combattimento non si imparano leggendo libri, ma con la pratica sul campo.
Una volta che il paziente è in uno stato ipnotico, si passa alla guida ipnotica.
La guida ipnotica significa orientare la focalizzazione del paziente verso stati mentali specifici per il lavoro che si vuole svolgere.
Ad esempio, se si desidera condurre una regressione alle vite precedenti, l’Ipnokinesi energetica amplifica gli stati mentali attraverso la stimolazione dei chakra e il movimento delle aree del corpo necessarie.
A differenza delle tecniche tradizionali, l’Ipnokinesi energetica interagisce in modo molto più efficace con il corpo e la mente.
Infatti, durante lo stato ipnotico, gli stimoli fisici sul corpo interagiscono con gli stati mentali e le memorie coinvolte nella regressione.
Faccio un esempio pratico: qualche tempo fa, durante un corso, una donna si lamentava di un fastidio costante nella deglutizione.
Nonostante avesse consultato vari specialisti che non avevano riscontrato problemi medici, il disturbo sembrava essere di natura psicosomatica.
Durante la regressione, la donna tornò al momento della sua nascita, quando il cordone ombelicale si era avvolto intorno al suo collo, causandole una forte sensazione di soffocamento.
Per aiutarla a liberarsi dal trauma, le appoggiai le dita sul collo, dandole la sensazione di essere liberata.
Questa manovra permise alla paziente di sbloccare il trauma e, sorprendentemente, il fastidio che la tormentava da anni scomparve completamente.
Un altro caso interessante riguarda una paziente che si sentiva “ingabbiata” nella sua vita.
Durante la regressione, scoprì di essere una prigioniera, cercando di fuggire da una cella.
Capì che il suo conflitto era legato al sesto chakra, quello dei progetti.
Durante lo stato ipnotico, stimolai l’apertura di questo chakra, situato nella zona della fronte.
Proprio in quel momento, la paziente mi disse che era riuscita a fuggire dalla sua prigione.
Al risveglio, la sensazione di essere intrappolata svanì, lasciando spazio a una forte motivazione a prendere in mano la propria vita e realizzare i propri progetti.
Questi esempi mostrano chiaramente come la stimolazione fisica ed energetica possa influenzare in modo diretto gli stati mentali ed emozionali durante l’ipnosi.
L’Ipnokinesi energetica integra le conoscenze delle discipline orientali e occidentali, introducendo un’innovazione nelle tecniche ipnotiche tradizionali.
Lo stato ipnotico e la guida verso determinati stati mentali ed emotivi non sono più indotti solo da tecniche verbali e non verbali, ma anche dalla stimolazione dei sette chakra e dal movimento specifico di aree del corpo.
L’Ipnokinesi energetica trova applicazione in vari ambiti sanitari e di benessere psico-fisico, offrendo un metodo integrato e potente per il trattamento di molte problematiche.
Crescita e potenziamento personale
Fin da ragazzo mi sono dedicato alla mia crescita personale, un percorso continuo che mi ha permesso di superare le convinzioni limitanti che ostacolavano la realizzazione dei miei sogni.
Per molto tempo, credevo che il destino di una persona fosse già segnato alla nascita.
È strano a dirsi, ma era questo il mio pensiero: se nasci in una famiglia di operai, da grande avresti fatto l’operaio; se nasci in una famiglia di medici, il tuo futuro sarebbe stato quello di medico.
Col tempo, però, ho imparato che questi limiti esistono solo nella nostra mente.
La verità è che la gabbia che ci impedisce di realizzare i nostri sogni è proprio nella nostra testa.
Così, ho iniziato a lavorare su me stesso, smantellando tutte quelle convinzioni che mi impedivano di fare ciò che desideravo per la mia vita.
Queste convinzioni sono radicate nell’educazione che riceviamo, nell’ambiente e nel contesto sociale e culturale in cui viviamo.
Con grande determinazione, sono riuscito a vedere le cose da una prospettiva diversa e a realizzare i sogni che avevo messo da parte.
Oggi, grazie a tutto il lavoro che ho fatto su di me, aiuto le persone a credere in se stesse, a superare le paure e le insicurezze, e a potenziare le loro risorse personali per trasformare la loro vita in meglio.
Siamo il risultato dei nostri pensieri
Questa è una frase che ripeto spesso alle persone con le quali lavoro per aiutarle a cambiare.
Dire che siamo il risultato dei nostri pensieri significa che siamo esattamente ciò che pensiamo di essere.
Se ci riflettiamo, infatti, la differenza tra una persona e l’altra risiede nel modo in cui ciascuno di noi si vede.
Tutto quello che vediamo in una persona — ciò che fa, dice, e chi è — è il risultato del suo pensiero, del modo in cui si pensa.
E il modo in cui pensa lo comunica agli altri attraverso il suo comportamento.
Siamo scatole biologiche, governate dalla nostra mente.
È un’affermazione forte, ma esprime bene come la differenza tra un individuo e l’altro dipenda da come ciascuno di noi si percepisce.
Un po’ come succede con i computer: possiamo avere hardware identici, ma la differenza tra un computer e l’altro è nel programma che vi è installato.
Allo stesso modo, siamo ciò che pensiamo di essere.
Se una persona pensa di essere insicura, si comporterà di conseguenza, trasmettendo la sua insicurezza in ogni gesto, parola e azione.
Chi la osserverà vedrà questi segnali e la “tratterà” come insicura.
E così, ricevendo questo feedback, la persona confermerà la sua convinzione di essere insicura.
Questo diventa un circolo vizioso: più ci pensiamo in un certo modo, più ci vediamo e veniamo visti in quel modo.
Se una persona si pensa sicura, la sua sicurezza si rifletterà in ogni comportamento e sarà percepita come tale dagli altri, confermando a sua volta il suo pensiero positivo su di sé.
Ma perché ci pensiamo in modi diversi? La risposta è semplice: ognuno di noi ha un vissuto unico.
L’educazione ricevuta, ciò che ci è stato detto su chi siamo, l’ambiente in cui siamo cresciuti e la cultura che ci ha plasmato contribuiscono a creare un’idea di noi stessi che può differire notevolmente da quella degli altri.
Nel nostro percorso di crescita, ci vengono appiccicate delle “etichette” che ci ricordano chi siamo, cosa siamo in grado di fare, cosa ci riesce bene e cosa non ci riesce.
Queste etichette creano gruppi distinti: quelli etichettati come talentuosi, capaci, e quelli etichettati come incapaci, dislessici, o destinati a non farcela mai.
Per alcuni, queste etichette possono essere utili; per altri, possono diventare una vera e propria condanna.
La costruzione dell’identità
Ogni persona ha la propria identità.
Alla domanda “Chi siamo?”, rispondiamo con un elenco di caratteristiche che ci definiscono.
Questi tratti vanno dal lavoro che svolgiamo, allo sport che pratichiamo, alla sensibilità che ci riconosciamo, fino alle attitudini e alle capacità che sviluppiamo.
In sostanza, la nostra identità è ciò che siamo, e questa si costruisce durante l’intero corso della nostra vita.
L’identità non è qualcosa di fisso, ma di dinamico. Ogni giorno, con le nostre azioni, scelte e comportamenti, continuiamo a modellarla.
Lavorare sulla propria identità significa modificare, integrare e potenziare le caratteristiche con cui desideriamo identificarci.
Spesso, nel mio lavoro con i giovani, mi concentro proprio su questo aspetto.
Li aiuto a comprendere cos’è l’identità e come costruirla, potenziarla e definirla.
Immaginate l’identità come un contenitore nel quale possiamo mettere tutte le capacità, attitudini e talenti che possediamo o che desideriamo sviluppare.
In questo modo, i giovani possono concentrarsi su ciò che vogliono veramente diventare.
L’identità si costruisce, infatti, con tutte le cose che, strada facendo, conquistiamo.
Diventare cintura nera di Karate, completare un corso di disegno, ottenere il diploma desiderato o conquistare il posto di lavoro che si sogna sono tutti traguardi che si integrano e contribuiscono a formare la nostra identità.
Identità e autostima
Tra identità e autostima esiste un legame indissolubile.
Avere autostima significa apprezzarsi, essere soddisfatti di chi siamo.
In altre parole, autostima è semplicemente piacersi.
Ma cosa vuol dire “piacersi”?
Piacersi significa che la nostra identità corrisponde alle nostre aspettative, a come desideriamo essere.
Se la nostra identità ci piace, cioè se è come vorremmo che fosse, allora significa che abbiamo una buona stima di noi stessi.
Questo si traduce in una maggiore sicurezza in noi.
Per questo motivo, quando si lavora sull’autostima, è fondamentale lavorare anche sull’identità.
Spesso, infatti, alcune persone arricchiscono il proprio concetto di identità con “accessori” che non hanno nulla a che fare con le loro reali capacità o attitudini.
Con “accessori” intendo oggetti materiali come case, auto, gioielli e simili.
Costruire un’identità basata solo sugli accessori ci porta a identificarci con ciò che possediamo, come ad esempio essere visti come quelli con la macchina di lusso, la casa elegante o lo yacht a Montecarlo.
Ma, se perdiamo questi “accessori”, la nostra identità ne risente.
Al contrario, costruire un’identità solida su chi siamo, piuttosto che su ciò che possediamo, ci permette di essere più sicuri di noi stessi e di sviluppare una vera autostima.
In questo modo, possiamo godere di qualsiasi accessorio ci piaccia, senza temere di perderlo.
Immagini, sensazioni e vocine mentali
Abbiamo visto che i nostri pensieri sono ciò che ci definisce.
Ma i pensieri non sono altro che immagini, sensazioni e suoni che emergono nella nostra mente.
Essere il risultato dei nostri pensieri significa che nella nostra mente esistono delle rappresentazioni di noi stessi, sotto forma di immagini, sensazioni e parole.
Se una persona si percepisce come insicura, nella sua mente si manifesterà l’immagine di sé con una postura remissiva, accompagnata da sensazioni di imbarazzo e inadeguatezza, oltre a una vocina interiore che ripete costantemente quanto sia insicura.
Queste rappresentazioni mentali si formano a livello inconscio, come risultato delle esperienze relazionali vissute durante l’infanzia e l’adolescenza.
Sono una sorta di “programmazione” che, senza che ce ne rendiamo conto, guida i nostri comportamenti, scelte e azioni, in base all’immagine che abbiamo di noi stessi.
Come abbiamo visto, tutto questo costituisce la nostra identità, ovvero chi siamo.
Ma cosa fare se alcuni aspetti di noi non ci piacciono e vorremmo cambiarli?
Questa è una delle domande che mi viene posta più spesso.
La risposta è semplice: iniziare a pensarci come vorremmo essere.
Possiamo farlo costruendo immagini, sensazioni e parole che rappresentino le caratteristiche della persona che desideriamo diventare.
Immaginiamo, per esempio, di essere insicuri e di voler diventare più sicuri e intraprendenti.
In questo caso, dovremmo creare un’immagine mentale di noi stessi più sicura, con una postura eretta e una vocina interiore che ci ripete costantemente quanto siamo forti e sicuri.
È come un mantra che coinvolge la nostra parte visiva, auditiva e cinestesica.
Queste nuove rappresentazioni mentali andranno a sostituire quelle inconsce legate all’insicurezza.
Questi nuovi contenuti di pensiero daranno origine a un nuovo modo di pensarci, generando così nuovi comportamenti che verranno percepiti dagli altri.
Pensiero e comunicazione
Chi siamo, come ci vediamo, come ci percepiamo, l’idea che abbiamo di noi stessi, le nostre sicurezze o insicurezze, le ferite, il nostro temperamento, carattere e personalità: gran parte di ciò che siamo lo trasmettiamo agli altri attraverso la nostra comunicazione.
Può sembrare strano, ma tutti noi, in un colpo d’occhio, possiamo farci un’idea, una prima impressione, delle persone che incontriamo, con cui veniamo a contatto o semplicemente osserviamo.
La comunicazione è ricca di informazioni sulla nostra persona.
Essa ha un ruolo fondamentale nel nostro vivere quotidiano: la usiamo per interagire, per scambiarci informazioni utili, per aiutarci nella vita.
Ci permette di scoprire, instaurare relazioni, trasmettere conoscenze e condividere idee, sentimenti ed emozioni. Insomma, la comunicazione è essenziale per la nostra esistenza.
Senza comunicazione, non esisteremmo.
Saremmo già estinti.
Non avremmo potuto tramandare il lavoro, lo studio, la storia, le scoperte, la scienza e la tecnica.
Ma la comunicazione non riguarda solo i contenuti, il sapere e le informazioni.
Essa veicola anche tutta una serie di caratteristiche legate a chi siamo, alle nostre emozioni, ai nostri affetti.
Questi aspetti sono trasmessi principalmente attraverso la comunicazione non verbale.
La comunicazione parla di noi
Ti sei mai chiesto perché siamo in grado di farci un’idea di una persona semplicemente guardandola?
La risposta è semplice: ognuno di noi trasmette una parte del proprio essere attraverso la comunicazione.
Infatti, possiamo subito riconoscere se qualcuno è sicuro, insicuro, timido, sfacciato, arrogante e così via.
La comunicazione, in fondo, ci rende trasparenti.
Le nostre insicurezze o sicurezze si riflettono nei movimenti del nostro corpo.
Una postura eretta, un comportamento deciso e sicuro, raccontano di una persona sicura di sé.
Al contrario, camminare a testa bassa, parlare con voce timorosa e esitare nei movimenti descrivono una persona insicura.
Essere consapevoli di questa trasparenza ci aiuta a capire quanto sia importante lavorare su noi stessi, per rinforzare la nostra personalità e diventare persone migliori.
Se mostriamo debolezza, corriamo il rischio che qualcuno ne approfitti.
Un esempio lampante è la dinamica vittima-carnefice.
Il carnefice, prima di sfogare i suoi istinti violenti, cerca una vittima.
Si concentrerà su chi mostra segni di debolezza, una persona che risulta facile da sottomettere.
Non attaccherà mai qualcuno che può dargli del filo da torcere.
Per esempio, difficilmente cercherà confronto con Mike Tyson.
Quindi, è fondamentale ricordare che non possiamo nascondere le nostre insicurezze.
Quando queste vengono percepite dagli altri, diventiamo vulnerabili.
I pensieri trasmessi dalla comunicazione
Come abbiamo visto, l’idea che abbiamo di noi stessi, i pensieri che ci facciamo e come ci percepiamo, vengono trasmessi attraverso la nostra comunicazione.
Per cambiare, dobbiamo creare un nuovo pensiero su chi siamo e su come vorremmo essere.
Solo così potremo trasmettere agli altri una versione rinnovata di noi stessi.
Ma come possiamo cambiare i nostri pensieri?
Come fare per formarne di nuovi?
Il primo passo è osservare cosa pensiamo di noi stessi.
Dobbiamo ascoltare la nostra vocina interiore e capire cosa ci diciamo, ovvero cosa stiamo comunicando agli altri di noi.
Il secondo passo consiste nel sostituire le parole che ci diciamo con altre più positive, che favoriscano il nostro cambiamento.
Tempo fa, un mio giovane paziente mi raccontò che ogni volta che doveva conoscere nuove persone, provava ansia e imbarazzo.
Gli chiesi cosa si dicesse, e dopo un momento di riflessione mi rispose: “Mi chiedo sempre se piacerò”.
Gli spiegai che, dicendosi queste parole, si stava mettendo nella posizione di chi aspetta di essere giudicato, di dover piacere.
Per superare questo blocco, gli suggerii di cambiare il suo approccio.
Ogni volta che doveva incontrare nuove persone, avrebbe dovuto farsi le seguenti domande: “Queste persone mi piaceranno? Meriteranno la mia amicizia?”.
E così fece.
In poco tempo, i sentimenti di inadeguatezza e imbarazzo che lo accompagnavano sparirono del tutto.
Non solo i nostri pensieri su di noi vengono trasmessi agli altri, ma anche le piccole domande che ci facciamo influenzano le nostre relazioni.
Immagina, ad esempio, di trovarti in fila alla cassa del supermercato, essere gli ultimi in fila, e vedere una persona avvicinarsi.
In quel momento, ti potresti dire nella tua mente: “Voglio vedere se ha il coraggio di passarmi davanti”.
Se questa persona lo fa, potresti reagire dicendo: “Guardi che c’ero prima io!”
E la persona risponderà: “Oh, mi scusi tanto, pensavo stessi ancora cercando qualcosa da comprare”.
Il punto è che quando ci facciamo una domanda del tipo “Voglio vedere se mi passa davanti?”, il nostro corpo si mette nella posizione che permette proprio questo.
Il nostro comportamento inconsciamente invita l’altro a fare ciò che non vogliamo.
Questo stesso meccanismo si applica a molte altre situazioni quotidiane.
Un altro esempio riguarda una mia paziente che, durante una festa, vide una persona che le piaceva e che avrebbe voluto salutare.
Tuttavia, quando questa persona si avvicinò, lei prese il cellulare e iniziò a fare finta di messaggiare.
Mentre lo faceva, si ripeteva mentalmente: “Vediamo se mi viene a salutare”.
E così, la persona passò accanto a lei senza fermarsi.
È naturale pensare che la persona non si sia fermata per non disturbarla, o magari abbia creduto che il suo atteggiamento fosse una scusa per non incontrarla.
Questo esempio ci mostra come le domande che ci poniamo nella mente possano influenzare il nostro comportamento in modi che vanno contro i nostri desideri.
Se ci mettiamo nella posizione di chi non vuole essere notato o incontrato, la comunicazione non verbale invia segnali di chiusura, impedendo agli altri di agire come vorremmo.
Per far sì che i nostri desideri si realizzino, dobbiamo evitare di farci domande come: “Voglio vedere se mi saluta?” o “Voglio vedere se mi sorride?”.
Queste aspettative creano una barriera che ostacola il nostro obiettivo.
Ad esempio, se mi faccio la domanda “Voglio vedere se mi saluta?”, è come se volessi verificare che l’altra persona lo faccia per prima.
Con il mio corpo, non saluterei per vedere se lo fa prima l’altra persona.
Questo genere di atteggiamento può creare conflitti nelle relazioni.
Un modo migliore per ottenere ciò che desideriamo è donare per primi quello che vogliamo ricevere.
Se desideriamo che le persone ci sorridano, non dobbiamo aspettare che siano loro a farlo per prime.
Se invece siamo noi a sorridere per primi, inviteremo naturalmente gli altri a fare lo stesso.
In questo modo, si attiverà un meccanismo quasi miracoloso.
La frase “Dona ciò che desideri ricevere” è una delle mie preferite, e applicandola nella mia vita, mi permette di ricevere ciò che desidero.
Una nota sulla comunicazione umana
Siamo spesso portati a pensare che la comunicazione avvenga principalmente attraverso le parole.
Questa convinzione nasce dal fatto che, rispetto agli altri animali, siamo gli unici ad usare un linguaggio verbale.
Tuttavia, la realtà della comunicazione umana è molto più complessa e va ben oltre le parole.
Infatti, se consideriamo tutti gli aspetti coinvolti nel trasmettere un messaggio, le parole rappresentano solo una piccolissima parte della comunicazione, contribuendo per circa il 7%.
Il restante 93% è composto dalla comunicazione non verbale, ovvero tutto ciò che riguarda il nostro corpo: i movimenti, le espressioni facciali, e anche il tono della voce.
Per chiarire meglio questo concetto, prendiamo come esempio un semplice saluto.
Immagina di dire a una persona: “Buongiorno, Signora”.
In questo caso, le parole che usiamo sono solo due: “buongiorno” e “signora”.
Tuttavia, il vero significato di quel saluto non è determinato tanto da queste parole, quanto piuttosto dal nostro comportamento, in particolare dal tono della voce e dai gesti che accompagniamo alle parole.
Supponiamo che io sia veramente felice di incontrare questa persona: il mio tono di voce sarà caldo, accogliente, e rifletterà tutta la mia gioia.
Se poi le stringo la mano, la mia stretta sarà morbida e invitante, un gesto che trasmette affetto e cordialità.
In questo caso, le parole che pronuncio sono solo una piccola parte del messaggio, mentre il resto del messaggio – la mia felicità, il mio coinvolgimento emotivo – emerge attraverso il mio corpo.
Al contrario, se non fossi contento di vedere questa signora, per esempio perché è arrivata in ritardo a un appuntamento di lavoro, nonostante dicessi ancora “Buongiorno Signora”,
il mio tono di voce sarebbe distante, freddo, e forse un po’ seccato, esprimendo chiaramente la mia delusione.
In aggiunta, la mia stretta di mano sarebbe rigida, poco accogliente, un chiaro segnale di distacco.
La tensione nel mio braccio potrebbe anche impedire alla persona di entrare nel mio spazio personale, creando una barriera invisibile che riflette il mio disappunto.
Questo esempio dimostra quanto, nella comunicazione umana, la parte verbale sia solo una piccola frazione del messaggio complessivo che trasmettiamo.
In effetti, gran parte della comunicazione avviene attraverso segnali non verbali, che includono i movimenti del corpo, le espressioni facciali, e soprattutto il tono della voce.
La comunicazione non verbale si riferisce a tutti i segnali che inviamo con il nostro corpo, come i gesti, le posture e le espressioni facciali.
È il tipo di comunicazione che si verifica senza l’uso delle parole, ma che è estremamente potente nel trasmettere emozioni e intenzioni.
Le espressioni facciali, per esempio, sono in grado di esprimere emozioni universali, come gioia, rabbia, tristezza e sorpresa, senza bisogno di una parola.
D’altra parte, la comunicazione para-verbale riguarda gli aspetti legati alla voce: il timbro, il volume, il ritmo, le pause e la modulazione.
Quando parliamo, non è solo il contenuto delle parole a essere importante, ma anche come queste vengono pronunciate.
Un tono di voce alto o basso, un’intonazione più dolce o più secca, una pausa drammatica – tutti questi aspetti conferiscono sfumature al messaggio che stiamo cercando di comunicare.
In termini di percentuali, la comunicazione non verbale contribuisce per ben il 55% alla trasmissione del nostro messaggio, mentre la comunicazione para-verbale rappresenta il 38%.
Solo il 7% della comunicazione è legato alle parole stesse, cioè al contenuto verbale.
Questo ci fa capire quanto le parole siano solo una piccola parte di ciò che realmente comunichiamo, e quanto, invece, il nostro corpo e la nostra voce siano strumenti fondamentali per trasmettere il vero significato di un messaggio.
Le ferite
Nei primi anni della nostra vita, si formano le prime ferite.
Queste ferite sono il risultato della nostra relazione iniziale con i genitori e, una volta create, ci accompagneranno per il resto della vita.
Ogni volta che entriamo in una nuova relazione, le ferite del passato sono sempre lì, pronte a riemergere.
In maniera inevitabile, ci troveremo attratti da persone che, con il loro comportamento, riaccenderanno queste ferite.
Non è tanto il carattere del nostro partner a causare sofferenza, quanto i “fili” che smuovono le ferite precedenti.
Spesso dico che il partner tocca i lividi delle nostre vecchie ferite.
Non è lui a provocarle, ma è come se, senza volerlo, risvegliasse il dolore di qualcosa che è già presente in noi.
Il dolore che sentiamo non è mai dovuto esclusivamente a un comportamento specifico, ma al fatto che la ferita, già esistente, viene riaperta.
È per questo che ci ritroviamo frequentemente a entrare in relazione con persone che sembrano avere caratteristiche simili a quelle dei nostri genitori.
C’è una sorta di attrazione inconscia, come se il nostro subconscio sperasse che attraverso queste persone, che ci ricordano le figure genitoriali, possiamo finalmente guarire le ferite relazionali della nostra infanzia.
Le ferite principali, riconosciute dalla psicologia dinamica, sono cinque: Rifiuto, Abbandono, Umiliazione, Tradimento, e Ingiustizia.
Personalmente, credo che da queste ferite non si guarisca mai completamente.
Possono essere gestite, comprese e tenute sotto controllo, ma il segno che lasciano nella persona rimane per sempre.
Ogni ferita genera specifici comportamenti che si integrano nella nostra personalità.
E queste tracce, sebbene spesso sottili, sono visibili nelle nostre comunicazioni e nelle relazioni che instauriamo con gli altri.
Le ferite che caratterizzano una persona si leggono attraverso il suo comportamento, le sue azioni, le parole che sceglie, il tono della sua voce e, naturalmente, il linguaggio del corpo. In altre parole, si manifestano nel modo in cui una persona si approccia alle altre persone e al mondo in generale.
Durante le interazioni sociali, le ferite possono riattivarsi, portando la persona a comportamenti eccessivi, talvolta sproporzionati rispetto al contesto relazionale.
È come se la ferita nascosta riemergesse in modo incontrollato.
Per questo, è fondamentale conoscere le nostre ferite.
Non solo per comprendere meglio le reazioni degli altri, ma soprattutto per essere in grado di gestire le nostre reazioni in modo consapevole.
Ogni ferita, infatti, corrisponde a una maschera che la persona indossa come meccanismo di difesa.
Quando una ferita viene toccata, la maschera si attiva come una protezione per evitare il dolore.
Ecco le corrispondenze tra le ferite e le maschere che adottiamo per difenderci:
- Ferita: rifiuto → Maschera: fuggitivo
- Ferita: abbandono → Maschera: dipendente
- Ferita: umiliazione → Maschera: masochista
- Ferita: tradimento → Maschera: controllore
- Ferita: ingiustizia → Maschera: rigido
Queste maschere descrivono il comportamento che una persona metterà in atto quando la sua ferita viene attivata.
Ad esempio, una persona con la ferita del rifiuto, se si trova in una situazione dove si sente respinta o non accettata, assumerà il comportamento del fuggitivo.
Si ritirerà dalla situazione, evitando il confronto e sentendosi come se non fosse voluta o accettata.
Chi porta con sé la ferita dell’abbandono, quando si sentirà lasciato o trascurato, indosserà la maschera del dipendente.
Questo individuo avrà la sensazione di essere stato abbandonato, non amato, e si sentirà vittima di una situazione.
Cercherà in ogni modo di riconquistare l’affetto dell’altro, spesso mostrando un comportamento di dipendenza, cercando costantemente approvazione e rassicurazione.
In entrambi i casi, la ferita non guarirà, ma attraverso la consapevolezza delle proprie maschere e comportamenti, sarà possibile gestirli e, in alcuni casi, superare il dolore che ne deriva.
Bersaglio della realtà
Il nostro vissuto, le ferite che ci portiamo dentro, l’ambiente in cui siamo nati e cresciuti, la cultura che abbiamo assorbito, l’educazione che ci è stata impartita, e le prime relazioni che abbiamo instaurato con i nostri genitori o con coloro che si sono presi cura di noi, sono tutte esperienze che ci rendono unici.
Ognuno di noi risponde alle sfide della vita in modo diverso, e queste differenze non solo ci definiscono come individui, ma influenzano anche le persone con cui ci relazioniamo e le esperienze che cerchiamo.
In altre parole, le nostre unicità ci spingono ad interagire con il mondo in modi distintivi.
Per comprendere meglio come ciò avvenga, è utile fare un passo indietro e analizzare il processo attraverso il quale interpretiamo la realtà.
Ogni individuo, a partire dal proprio vissuto, sviluppa un substrato e delle mappe mentali che gli permettono di leggere e comprendere ciò che accade intorno a sé.
Il substrato è la struttura che definisce la nostra personalità, il nostro modo di vedere e reagire al mondo, un insieme di esperienze, traumi, valori e convinzioni che modellano la nostra percezione della vita.
Le nostre ferite, in particolare, svolgono un ruolo cruciale in questo processo.
Esse, agendo in modo inconscio, determinano con chi scegliamo di interagire e come interpretiamo le azioni altrui. In effetti, siamo come bersagli.
La realtà ci colpisce, ma il danno che subiamo dipende da ciò che siamo, dal substrato che abbiamo costruito.
Se pensiamo a tre materiali diversi – carta, legno e metallo – come bersagli, e all’acqua come il colpo proveniente dalla realtà, possiamo osservare che, sebbene l’acqua colpisca tutti e tre i materiali, il danno che ciascuno subisce dipende dalla sua natura:
- La carta si bagna, si frantuma facilmente.
- Il legno si umidifica, ma rimane intatto, senza rompersi.
- Il metallo respinge l’acqua, scivolando senza subire alcun danno.
Con questo esempio, possiamo comprendere meglio come il nostro substrato influenzi la nostra resilienza e il nostro benessere psicologico.
Le nostre ferite, le esperienze del passato, le convinzioni che ne derivano e la nostra visione del mondo ci guidano, spesso inconsciamente, a cercare interazioni e persone che percepiamo come in grado di aiutarci a “guarire” o a sistemare quei danni irrisolti.
In sostanza, il nostro substrato ci rende vulnerabili a determinati eventi e relazioni.
Proprio come i diversi materiali reagiscono in modo distinto all’acqua, così anche noi reagiamo in modo diverso alla realtà che ci circonda, a seconda di come il nostro passato ha modellato la nostra capacità di affrontarla.
E, attraverso questa dinamica, cerchiamo, senza nemmeno rendercene conto, di risolvere i traumi non guariti, interagendo con il mondo in un tentativo inconscio di riparare ciò che è stato ferito.
Le nostre emozioni
Purtroppo, spesso non si dà alla sfera emotiva l’importanza che merita, ma è grazie alle emozioni che possiamo sopravvivere e garantire la continuità della nostra specie.
In effetti, le emozioni sono state “donate” dalla natura per aiutarci a vivere il più a lungo possibile. Esse sono essenziali per il nostro benessere e ci permettono di orientarci nel mondo che ci circonda.
Le emozioni fungono da un importante feedback: sono l’interpretazione emotiva delle azioni che compiamo nella vita quotidiana. Ma come avviene esattamente questo processo?
Prima di tutto, è fondamentale comprendere che le emozioni non vanno suddivise in positive o negative, come comunemente si tende a fare.
In realtà, tutte le emozioni sono utili.
Classificarle come “negative”, come spesso avviene per la paura, la rabbia e il disgusto, rischia di portare al loro rifiuto, facendoci credere che siano dannose per la nostra esistenza. La vera distinzione che dobbiamo fare è tra emozioni piacevoli e spiacevoli.
Questa classificazione corrisponde alla strategia evolutiva che la natura ha creato per guidarci nella vita e garantirci la sopravvivenza, sia come individui sia come specie umana.
Le emozioni piacevoli hanno il compito di rinforzare ciò che è produttivo per la nostra sopravvivenza.
Per esempio, proviamo gioia per le cose che ci assicurano la nostra incolumità. Questo vale non solo per le sensazioni, ma anche per i sentimenti.
Un esempio chiaro può essere quello della fame.
Quando abbiamo fame, proviamo piacere nel mangiare, il che ci spinge a cercare cibo, essenziale per il nostro nutrimento.
Senza il piacere che proviamo nel mangiare, non cercheremmo il cibo e finiremmo per morire di denutrizione.
Questo vale per tutte le sensazioni piacevoli, come anche i sentimenti positivi, come l’amore.
L’amore, visto sotto una lente evoluzionistica, è un altro esempio di emozione piacevole.
Ci fa sentire piacere nel relazionarci con le persone a noi congeniali, portandoci a creare legami profondi.
Questo bisogno di stare con gli altri, di interagire, favorisce la vita di gruppo.
Ed è proprio grazie alla vita di gruppo che gli esseri umani sono riusciti a prosperare nel corso dei millenni.
Le famiglie, le amicizie, le città, le società, le associazioni sono tutte manifestazioni dell’amore, e ci permettono di sopravvivere più a lungo e di progredire.
Ma cosa succede quando sperimentiamo emozioni e sentimenti spiacevoli?
Anche questi sono fondamentali per la nostra sopravvivenza.
Pensiamo, ad esempio, al dolore.
Quando avviciniamo la mano a una fonte di calore, il nostro corpo ci invia il segnale di bruciore, spingendoci a ritirarla immediatamente.
Questa sensazione di bruciore è fondamentale per proteggere i nostri tessuti.
Se non provassimo dolore, non saremmo in grado di evitare il fuoco e i danni che potrebbe causarci. Il fuoco danneggerebbe i nostri tessuti e, nei casi peggiori, potrebbe addirittura portare alla morte.
Lo stesso principio vale per le emozioni spiacevoli.
Immaginate di trovarvi di fronte a una bestia feroce.
La paura che proviamo in quel momento ci spinge a scappare e metterci al sicuro.
La paura è un’emozione spiacevole che ci permette di evitare situazioni pericolose.
Lo stesso vale se ci troviamo sull’orlo di un burrone: la paura ci fa retrocedere rapidamente per salvarci da un possibile disastro.
I sentimenti spiacevoli funzionano allo stesso modo.
Pensiamo, ad esempio, all’odio.
Quando odiamo qualcuno, tendiamo ad allontanarci da quella persona perché percepiamo una minaccia per la nostra vita o il nostro benessere.
La natura ci ha dotato di questo sentimento per proteggere la nostra incolumità.
Per comprendere appieno la funzione di una sensazione, di un’emozione o di un sentimento, è importante osservare il comportamento che adottiamo quando ci troviamo di fronte a quella determinata esperienza.
Quel comportamento ci rivela la funzione protettiva che la natura ha progettato per noi, affinché possiamo prendere le giuste precauzioni per garantire la nostra esistenza.
Il time-out delle nostre emozioni
Anni fa, quando mi iscrissi all’università, ero entusiasta di intraprendere quel percorso.
Completare gli studi era uno dei miei desideri più grandi, e avrei fatto qualsiasi cosa pur di raggiungere quel traguardo.
Dopo anni di sacrifici, quel giorno finalmente arrivò.
Eppure, una volta raggiunto l’obiettivo, mi resi conto che il valore che attribuivo alla laurea non era più lo stesso.
Mi chiedevo incredulo: com’è possibile? All’inizio avrei dato chissà cosa per arrivare alla laurea, eppure ora, con il mio “trofeo” in mano, pensavo già a quale nuovo percorso intraprendere.
Con il tempo, ho compreso che questo fenomeno è un meccanismo che la natura ci ha donato.
Quando abbiamo un obiettivo, attiviamo tutte le risorse in nostro possesso per raggiungerlo, spinti da una forte motivazione.
Ma quando finalmente raggiungiamo quel traguardo, ci rendiamo conto che la soddisfazione che proviamo non è più la stessa di quando avevamo appena iniziato.
Questo fenomeno accade per un motivo preciso: ci spinge a non fermarci, a cercare nuovi obiettivi da realizzare.
È un meccanismo di sopravvivenza che ci mantiene attivi e combattivi.
Se non fosse così, non avremmo mai nuovi obiettivi e ci fermeremmo al primo traguardo, venendo sopraffatti dalla vita stessa.
Questo è quello che chiamo il “time-out delle emozioni”.
Un meccanismo che ci aiuta a interrompere il piacere che, se prolungato, potrebbe diventare deleterio per la nostra vita.
Questo time-out è presente in tutte le emozioni piacevoli, che regolano i nostri processi vitali. Prendiamo, ad esempio, il piacere del cibo.
Se non ci fosse questo time-out, non smetteremmo mai di mangiare.
Emozioni ed evoluzione
Mi piace analizzare le emozioni da un punto di vista evolutivo, cercando di comprendere il meccanismo che le governa e la loro funzione secondo le leggi di madre natura.
È un po’ come nell’informatica: sotto ogni software, alla base c’è il linguaggio macchina, composto da zeri e uno.
Allo stesso modo, esaminare le emozioni in chiave evoluzionistica ci permette di risalire alle loro origini, di capire perché esistono, qual è il loro scopo e come possiamo interpretarle al meglio.
Psicologia ed evoluzione
Per comprendere la psicologia umana, è fondamentale studiare i meccanismi evolutivi della natura.
Ogni nostra azione è orientata alla nostra sopravvivenza e al proseguimento della specie, e sono le emozioni a guidare i nostri comportamenti verso questi obiettivi.
Grazie alle emozioni, rispettiamo programmi vitali che ci permettono di vivere fin dai primi istanti della nostra esistenza.
Fin dall’inizio, siamo dotati di istinti ed emozioni che puntano alla nostra sopravvivenza.
Il neonato cerca automaticamente il latte materno e gli abbracci della madre, gesti che gli permettono di nutrirsi e di ricevere affetto e attenzione.
Allo stesso modo, l’amore che i genitori provano per il loro bambino fa sciogliere i loro cuori e li spinge a prendersi cura di lui, proteggendolo dai pericoli.
L’aspetto tenero dei cuccioli innesca un istinto di protezione, facendo nascere il desiderio di accudire i bambini affinché possano crescere sani e al sicuro.
L’amore reciproco tra genitori e figli è fondamentale per la loro sopravvivenza: il figlio cerca il genitore, il genitore cerca il figlio, e questi legami garantiscono la continuità della vita.
Nell’infanzia, è essenziale che si sviluppi una relazione affettiva funzionale tra genitori e figli.
Grazie a questa relazione, i genitori trasmettono alla prole gli insegnamenti necessari per affrontare la vita, oltre agli aspetti culturali della famiglia e della società, preparandoli a vivere in comunità e seguire codici e regole comuni.
Anche l’aspetto affettivo, oltre a quello culturale, deve essere trasmesso ai figli.
Una relazione basata sull’amore e sulla cura favorisce lo sviluppo della sfera emotiva del bambino, insegnandogli a esprimere le proprie emozioni e a costruire rapporti sani con gli altri.
Vivere in comunità, infatti, aumenta le nostre probabilità di sopravvivenza, e l’amore è il sentimento che ci unisce, permettendoci di formare famiglie, città e società.
Ecco perché la natura ci ha dotato di questo sentimento: l’amore deve essere trasmesso di generazione in generazione, perché attraverso di esso possiamo garantire la nostra sopravvivenza.
Le ricerche dimostrano che i bambini che ricevono amore crescono più sereni e felici.
Gli adulti che hanno ricevuto amore da piccoli tendono ad essere più soddisfatti della loro vita, e la capacità di dare e ricevere amore favorisce lo sviluppo di relazioni sane in tutti gli ambiti, sia professionali che personali.
Tutto questo ci porta a provare emozioni piacevoli come la gioia, la soddisfazione e la contentezza, che sono il segno che stiamo seguendo la giusta strada.
La felicità si prova quando le nostre azioni sono dirette verso la nostra sopravvivenza e il benessere collettivo.
Adolescenza ed evoluzione
L’adolescenza è spesso descritta come quel periodo turbolento in cui i ragazzi iniziano a ribellarsi ai genitori, a rispondere male, a comportarsi in modi imprevedibili, tanto da far sembrare ai genitori di aver perso il controllo della situazione.
Tuttavia, se analizziamo questo periodo da un punto di vista evoluzionistico, tutto assume un senso preciso.
L’adolescenza segna il momento in cui i ragazzi si preparano a condurre una vita autonoma.
Sono ormai fisicamente e biologicamente adulti, in grado di badare a se stessi, riprodursi e, in sostanza, costruire una propria famiglia.
Questo passaggio non avviene senza attriti: gli scontri e i disaccordi che spesso emergono tra adolescenti e genitori non sono altro che un meccanismo naturale per favorire il distacco dai legami familiari di origine e promuovere l’indipendenza.
Immaginiamo, per un momento, se i figli adolescenti andassero sempre d’amore e d’accordo con i genitori.
Cosa li spingerebbe a lasciare la casa familiare?
Senza conflitti, non ci sarebbe il bisogno di cercare una propria autonomia e di costruire una vita indipendente.
Proprio qui entra in gioco la “strategia” della natura, che attraverso i contrasti dell’adolescenza crea il distacco necessario per favorire la formazione di nuovi nuclei familiari.
Anche la maturazione sessuale, che avviene durante questa fase, svolge un ruolo cruciale.
La tempesta ormonale tipica dell’adolescenza spinge i ragazzi a cercare un partner, a innamorarsi e a gettare le basi per concepire figli e costruire una nuova famiglia.
Questo processo biologico, apparentemente tumultuoso, segue un preciso piano evolutivo volto alla sopravvivenza e alla continuazione della specie.
Tuttavia, questa spinta biologica si scontra oggi con le esigenze culturali.
In passato, una volta raggiunta l’adolescenza, i giovani lasciavano presto la famiglia per iniziare una nuova vita autonoma.
Oggi, invece, il progresso e le trasformazioni sociali hanno modificato profondamente il nostro percorso di vita.
Per prepararsi alle sfide del mondo moderno, è necessario studiare più a lungo e acquisire competenze specifiche per entrare nel mondo del lavoro.
Questo ritarda inevitabilmente l’indipendenza, portandoci a restare in famiglia ben oltre l’adolescenza.
Di conseguenza, la maturità biologica e il desiderio di indipendenza che emergono durante l’adolescenza si trovano in conflitto con le regole sociali e lavorative.
Spesso si inizia a costruire una famiglia solo dopo i trent’anni, quando la stabilità economica e lavorativa è raggiunta. Tuttavia, ciò comporta sfide ulteriori, poiché la fertilità biologica inizia a declinare proprio in questo periodo.
Questi paradossi, che abbiamo creato attraverso il progresso culturale, incidono profondamente sulla nostra psiche e sul nostro benessere.
La spinta biologica verso l’indipendenza e la riproduzione precoce viene soffocata dalle aspettative e dalle regole della società moderna.
Allo stesso tempo, rimandare troppo i passi fondamentali per la creazione di una famiglia ci espone a difficoltà che vanno contro le leggi naturali della biologia.
Resta quindi una domanda aperta: quanto possiamo spingere la cultura oltre i limiti della biologia?
E fino a che punto possiamo considerare il progresso come tale, se ciò che esso genera contribuisce a creare disagio e squilibri profondi?
To be continued …